L’amore che finisce

 

Quando il legame sentimentale tra i partner cessa di essere una fonte di benessere, di
reciproco sostegno e di scambio affettivo, inizia un’epoca diversa nel tempo della coppia
che può essere vissuta e interpretata, come ogni situazione umana, in più modi.
A volte le coppie “scelgono” di non vedere e di non affrontare la fine del legame.
Continuano a condividere la dimora, la vita quotidiana, la gestione dei figli senza mai
addentrarsi nel “come” questo avvenga e nel “cosa” questo faccia alle vite di ciascun
membro della coppia e della famiglia.
Spesso si cercano e si trovano, in maniera del tutto silenziosa e implicita, accomodamenti
e compromessi, perché il patto implicito che tutti nella famiglia rispettano è che la
sofferenza non può trovare canali di espressione espliciti e chiari. Ciascuno è portato a
trovare una propria nicchia di auto-salvaguardia, che può essere il rifugio nel super-lavoro
o in una relazione extra-coniugale, oppure la pratica elettiva di uno sport, la
frequentazione assidua della dimensione amicale, etc.
La sofferenza rimane, ad ogni modo, “non detta” e causa spesso una condizione di disagio
latente che – prima o poi – diventerà evidente, magari attraverso il sintomo psico-fisico di
uno dei componenti del sistema familiare, o attraverso “rotture” improvvise degli assetti
usuali, con fuoriuscite più o meno agite, quali unica via di uscita da una situazione che
causa dolore e di cui non si può parlare.
Altre volte è solo uno dei membri della coppia a portare “in figura” le questioni
problematiche, perché più consapevole e magari meno spaventato dalle conseguenze di
una esplicitazione delle difficoltà. Quando l’altro partner accoglie l’invito ad affrontare le
questioni che riguardano la coppia, si può aprire la strada della psicoterapia o della
mediazione o del counselling, forme di aiuto diverso che possono – con gradi di
approfondimento e di trasformazione differenti- , aiutare la coppia a portare le proprie
difficoltà su un piano di visibilità. Diventa allora possibile “farsene qualcosa”: il
cambiamento a volte sarà praticabile, altre volte no ma, almeno, non si sarà rimasti nello
stallo del non detto e nella negazione dei problemi.
Quando invece la coppia non riesce a farsi carico delle proprie questioni, perché soltanto
uno dei partner è disponibile in tal senso, la direzione diventa, spesso, quella di una
separazione perché la vita di due persone così differentemente orientate dal punto di vista
psicologico spesso risulta impossibile da conciliare.
In altri casi non si cercano ottundimenti né si tenta di costruire una strada dialogica,
il conflitto diventa l’unica dimensione della coppia, spesso con scarsa consapevolezza di
entrambi i partner anche sulle conseguenze che questa costante e cieca conflittualità
genera “intorno”.
In questi casi, “l’amore che finisce” si accompagna a crescenti vissuti di rabbia,
risentimento, delusione, frustrazione, paura che rendono la convivenza (e talvolta perfino
il solo pensiero dell’altra persona e della situazione che si sta vivendo) una fonte continua
di tensione e di stress.
La continua sollecitazione psicologica a cui una tale situazione può esporre i partner può
diventare eccessiva rispetto alla loro capacità di contenere gli stati emotivi che ne derivano.
Si assiste allora ad un tracimare di questi vissuti, che possono erodere anche aree della
relazione rimaste ancora integre, ad esempio la stima o il rispetto che si nutrono ancora

per l’altra persona dal punto di vista lavorativo, dal punto di vista valoriale oppure
genitoriale.
Quando il conflitto e la sollecitazione emotiva che ne deriva diventano ingestibili, anche
queste aree di residuale benessere rischiano di essere fagocitate. Si può allora assistere a
un continuo e progressivo allargamento delle reciproche svalutazioni, recriminazioni,
colpevolizzazioni, che possono estendersi al giudizio reciproco sul piano della
genitorialità. Si inizia a vivere l’altro come fonte di qualunque malessere, si invitano – più
o meno consapevolmente – i figli a vedere il padre o la madre secondo la propria
prospettiva, dimenticando che a ciascun figlio va lasciata la libertà di guardare i genitori
soltanto attraverso i suoi propri occhi.
I figli vengono così, di fatto, chiamati alla guerra, a stabilire con chi schierarsi, chi
ha ragione e chi ha torto.
I genitori sono diventati incapaci di svolgere il proprio compito di tutela nei confronti dei
figli e impongono loro di accedere ad un piano adulto delle questioni, ledono il loro diritto
a vivere le questioni proprie della loro età, rimanendo sfilati da quelle degli adulti.
Anche quando non si tratti di bambini piccoli ma magari di pre-adolescenti o di ragazzi
più grandi, infatti, i figli dovrebbero essere lasciati fuori dalle questioni della coppia.
Di fatto non ne sono interessati, non è affare dei figli se i genitori non si amano più e anzi
si detestano. Diventa una questione dei figli solo se sono i genitori a tirarli dentro affinché
assumano il compito di difendere l’uno o l’altro. Così facendo il genitore chiede al figlio
figli di fargli da genitore, da sostegno, di dare consolazione, di placare e lenire il dolore
per la fine del proprio amore e infine di allearsi con lui/con lei.
Il genitore obbliga il figlio a guardare l’altro genitore collegandosi alla visione che ha
dell’altro/altra come “cattivo partner”.
Questa configurazione, che potremmo definire ad alta conflittualità espressa, è
quella che più frequentemente ritroviamo nelle aule dei Tribunali, nelle contese
giudiziarie in cui vengono coinvolti anche i figli minori.
Lo spazio giudiziario spesso diventa la scena su cui il livello della conflittualità si
esaspera ulteriormente e la tutela dei figli non sempre viene esercitata.
Non sempre la sensibilità dei professionisti in campo riesce a traghettare la famiglia a una
definizione della condizione separativa (dal punto di vista economico e dell’affidamento
dei figli) che possa essere il punto di inizio per una gestione meno faticosa e conflittuale
della situazione.
Non è infrequente anche che il lavoro consulenziale specialistico che spesso viene
richiesto in queste separazioni tanto conflittuali (C.T.U. sul tema della genitorialità, ad
esempio) non riesca a svolgere alcuna azione trasformativa, a condurre gli adulti verso una
maggiore consapevolezza e i minori in una condizione di minore disagio.
Perché si arriva troppo tardi, quando ormai non è finito solo l’amore ma anche tutto il
resto, quando in campo ci sono solo le difese irrigidite degli adulti e gli equilibri precari e
rabberciati dei figli.
Risulta di fondamentale importanza, allora, di contrasto, lavorare per la costruzione
di una “cultura della tutela” che riduca quanto più possibile il verificarsi di situazioni così
estreme. Occorre che si comprenda che tutelare se stessi e i propri figli nella strettoia
esistenziale della fine di un amore, può significare preservare tutti da lacerazioni, per così
dire, “accessorie”, di cui è possibile senz’altro fare a meno, lasciando tempo, spazio e
risorse per la cura del dolore reale e profondo che la separazione di una coppia e di una
famiglia certamente comporta.

“L’amore che finisce” può essere affrontato in tanti modi diversi, il nostro intento
è quello di aiutare le persone ad affrontarlo in maniera “ri-generativa”, affinché guardando
le ferite e facendosi carico di curare il dolore che ne deriva, si possa tornare (a volte
iniziare) a vivere meglio. A volte può esserci spazio anche per il perdono e per la speranza.